U.S.A.

BERNARDESCHI & CO. – REBORN IN U.S.A.

Da un paio di stagioni è iniziato il processo che vede tanti giocatori andare a fare fortuna negli U.S.A., guardiamo il processo in sé:
Nel 1956 nelle radio italiane impazzava una canzone famosissima di Renato Carosone, “Tu vuò fà l’americano”, dove l’americano era visto come l’idealizzazione di ciò che non si trovava: denaro, charme e un punto diverso del mondo.


Negli anni ‘80 la situazione s’inverte: Rocky e Rambo costruiscono la figura dell’italiano che dal banale “pizza, mafia e mandolino” diventa “stallon”, bello e desiderato.

Il panorama calcistico non è da meno: Da Lalas a McKennie, passando per Bradley e Onyewu. Il calcio a stelle e strisce ha provato e prova a contaminare quello europeo, quello italiano.


Sorprende però come, negli ultimi anni, il processo sia diventato bilaterale, rendendo anche per i non americani, più avvincente e coinvolgente l’MLS.

Non sorprendono più i trasferimenti di alcuni campioni (o presunti tali) in cerca di un contratto vantaggioso o in cerca di un ultimo canto del cigno (come l’Americanissimo Tom Brady insegna): basti pensare a Giovinco o Ibrahimovic, andati negli States per “ritrovarsi” ma diventati eroi dei due mondi con le casacche di Toronto e Los Angeles Galaxy.
Ultimi, ma solo temporalmente, gli arrivi nel campionato americano di Bernardeschi, Chiellini, Criscito e Insigne, giocatori che vendono gadget (3 su 4 ancora campioni europei in carica) ma che possono ancora dire la loro.

E allora forse nelle radio inizierà a risuonare un brano del 1984 di Bruce Springsteen, Born in the U.S.A.

O, forse, è più consono dire Reborn in the U.S.A.

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